Lo scarsissimo raccolto del 1569 causò estrema penuria di pane e di viveri. L'anno seguente un grande numero di indigenti si riversò dalla campagna in città. San Carlo impose al suo elemosiniere di allargare la mano, oltre le elargizioni ordinarie, per poter soccorrere la povera gente che soffriva la fame. Più di tremila persone al giorno vennero nutrite dall'arcivescovo per tutto il tempo della carestia, che durò parecchi mesi.

 

Momento alto nella vita del Borromeo furono gli anni 1576-77, gli anni di quella peste, che desolò, come scrive il Manzoni nel capitolo XXXI de I Promessi Sposi, "buona parte d'Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo. Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così solenni d'un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d'un uomo; perché a quest'uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora de' mali; stamparlo nelle menti, come un sunto di tutti que' guai, perché in tutti l'ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima volontaria; d'una calamità per tutti, far per quest'uomo come un'impresa; nominarla da lui, come una conquista, o una scoperta".

Cominciò a manifestarsi il contagio in Milano nell'agosto del 1576. A fine settembre si erano già contati in città seimila morti di peste. Personalità autorevoli si erano rifugiate in località lontane e sicure, tra esse il governatore spagnolo, con l'idea, s'intende, di poter meglio procurare possibili soccorsi. L'arcivescovo invece decise di rimanere. Sapeva bene il rischio e quindi nel settembre del 1576 con tutte le forme legali fece il testamento, nominando erede universale dei suoi beni personali l'Ospedale Maggiore di Milano. Il lazzaretto, per quanto grande, risultò presto insufficiente ad ospitare gli appestati, e allora si decise di costruire duecento capanne al di fuori di ciascuna porta della città. In ottobre venne ordinata una quarantena: case serrate, tutte le botteghe e gli opifici chiusi. Circa ottanta mila persone si trovarono così senza lavoro. Chiuse anche le chiese: l'arcivescovo fece fare altari all'aperto in varie piazze e crocicchi. Domandò e ottenne generosa collaborazione da schiere di uomini e di donne che si prestarono a visitare gli appestati e a soccorrerli.

Per assicurare qualche ordine l'arcivescovo persuase le autorità civili ad affidare la direzione del lazzaretto ai frati cappuccini. Nei mesi dell'inverno 1576-77 fu necessario provvedere anche ai vestiti per migliaia di malati. Nel settembre del 1577 la peste poteva dirsi finita in città, mentre lunghi strascichi si ebbero nel contado. L'arcivescovo entrò nelle case di ciascuno degli appestati "dando a ciascuno secondo il bisogno loro a chi dui, a chi tre, a chi più a chi meno scudi d'oro".

Passata la peste, Milano risorse in fretta con i suoi traffici. Però i sopravissuti e della città e della campagna non dimenticarono l'altruismo eroico dell'arcivescovo in quei tragici anni della grande morìa. Per la sua azione religiosa l'arcivescovo aveva da affrontare l'ignoranza e il malcostume del clero, poi l'ingerenza soffocante delle autorità civili nelle cose di chiesa, infine l'eresia che minacciava dai paesi del nord.

La pace di Augusta del 1555 tra protestanti e cattolici aveva sanzionato il principio: cuius regio, eius et religio: la gente deve seguire la religione del suo principe. La libertà religiosa era riconosciuta soltanto ai principi, non ai cittadini. Nel secolo XVI base del diritto pubblico era considerato il diritto del capo dello Stato di poter imporre la propria religione ai suoi sudditi.

Negli anni di san Pio V (1566-1572), che sono pure anni di san Carlo, l'intolleranza e in campo protestante e in campo cattolico raggiunge vertici da crociata. Nei due campi non si cerca che la distruzione dell'altra parte. In Francia dopo le devastazioni degli ugonotti che a Montpellier uccidono 150 preti e in varie parti distruggono diecimila chiese, la vendetta dei cattolici esplode nell'agosto 1572 nella notte di san Bartolomeo, che vede uccisi 4000 ugonotti nella sola Parigi. In Inghilterra negli anni di Maria la Cattolica (1553-1558) ci furono 300 condanne a morte per causa di religione. Sempre per tale causa durante il regno di Elisabetta (1558-1603) vennero uccisi 124 preti e 61 laici cattolici. San Pietro Canisio predicando a Innsbruck nell'agosto 1571 sostiene la legittimità della pena di morte per quelli che vogliono abolire la Messa e disprezzano e rinnegano la Chiesa. Due mesi prima a Coira i settanta ministri del sinodo grigionese danno il loro voto alla tesi di Tomaso Egli, discepolo di Bullinger, che i "papisti" devono essere espulsi, che si devono estirpare, anche con la pena di morte se necessario.

E' su questo tragico sfondo che si devono valutare le cinque visite di san Carlo nelle valli svizzere: nelle altre pievi le sue visite furono una o due al massimo. Si spiega anche il suo rigore nel pretendere l'attuazione dei decreti tridentini.

Nella diocesi milanese il Borromeo trovava dovunque una montagna di abusi e di disordini. Cominciò a far ripristinare nei monasteri la clausura e le grate; volle che si finisse di far baldorie e traffici nelle chiese; ritenne suo obbligo richiamare preti e parroci all'osservanza del celibato. Ad evitare tresche almeno nelle chiese, san Carlo comandò di impiantare steccati fissi nelle navate per tener separate le donne dagli uomini. Egli poi riteneva come un presupposto di una efficiente attività pastorale l'esercizio illimitato della giurisdizione vescovile e sul clero e sui laici.

Gli Umiliati con i loro opifici e commerci erano divenuti una potenza finanziaria: nella sola città di Milano possedevano una quindicina di case. I religiosi, assai pochi, avevano a disposizione rendite annuali per 50 mila scudi, cioè parecchi milioni di franchi; e i loro modi di vita non erano certamente conformi al voto di povertà. Incaricato da Roma di provvedere a una riforma dell'ordine degli Umiliati, san Carlo riunì i capi; propose e decretò nuovi regolamenti poichè non ubbidivano, destituì i dirigenti. Venne allora ordita una congiura. La sera del 26 ottobre 1569 nella cappella del palazzo arcivescovile, mentre l'arcivescovo era in preghiera, un tale gli sparò un'archibugiata. Il colpo, se pure a distanza ravvicinata, lasciò illeso il cardinale. Ma quell'archibugiata ammazzò l'ordine degli Umiliati. L'enorme impressione sollevata e a Madrid e a Roma da quell'attentato determinò papa Pio V alla decisione di sopprimere l'ordine, non soltanto di riformarlo. A Milano un rapido processo civile condannò i quattro maggiori responsabili e colpevoli della congiura: essi vennero giustiziati a Milano il 28 luglio 1570.

L'ultima fatica di san Carlo fu il viaggio ad Ascona il 30 ottobre 1584. Celebra l'ultima sua Messa la mattina del 1. novembre giovedì ad Arona. Presa la febbre, la mattina del 2 novembre, venerdì, viene portato sulla barca che lo conduce lungo il Ticino e il Naviglio a Milano, dove arriva a sera. Alle ore 21.40 del sabato 3 novembre muore. Aveva 46 anni e 21 giorni. La notte tra martedì e mercoledì i due cappuccini che l'assistevano nel confortarlo gli dissero anche che doveva attenuare le sue austerità. Rispose loro: "La candela per far luce deve consumarsi". Carlo Borromeo per la sua gente aveva consumata la vita.

 

Per maggiori informazioni circa la vita del santo, potete visitare il sito della diocesi di Lugano

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